La scrittura inclusiva: un vero esercizio di empatia

Con questo articolo abbiamo scelto di soffermarci sull’importanza del linguaggio nel parlare delle diversità. Linguaggio che non deve essere inteso unicamente come l’insieme di regole grammaticali utilizzate tutti i giorni, ma, al contrario, un processo attraverso il quale dare concretezza alla realtà e ai pensieri.

Il linguaggio, allora, non deve esclusivamente essere inteso nella sua una funzione informativa, ma anche come strumento attraverso il quale può accadere di definire una gerarchia sociale, distinguendo socialmente le persone, supportando le ideologie e, inevitabilmente, stereotipi legati a ruoli e generi.

Il dizionario Treccani definisce “Inclusività” come la “capacità di includere più soggetti possibili nel godimento di un diritto, nella partecipazione ad un’attività o nel compimento di un’azione” o ancora come “la propensione, la tendenza ad essere accoglienti e a non discriminare, contrastando l’intolleranza prodotta da giudizi, pregiudizi, razzismi e stereotipi”.

Per potenziare l’inclusività nel nostro Paese, dunque, anche alla luce di tali definizioni, si dovrebbe promuovere l’uso di un linguaggio volto a ridurre quanto più possibile le discriminazioni; un linguaggio quotidiano che sostenga l’inclusività, concorrendo, quindi, all’inclusione di più persone possibili nei diritti, sistemi o attività sociali di qualsivoglia tipo.

Oggigiorno, le questioni relative al genere assumono un’importanza nemmeno lontanamente paragonabile a quelle del passato e per questo motivo sono ampiamente dibattute in tanti Paesi. Essendo, quindi, il linguaggio un sistema dinamico per eccellenza, è in costante metamorfosi: i cambiamenti, infatti, contribuiscono a rendere l’inclusività e la parità di genere temi sempre più al centro dell’attenzione.

In italiano, così come in tutte le lingue romanze, il genere dei nomi, o degli aggettivi e dei pronomi è binario (maschile/femminile) e pertanto, quando indichiamo qualcosa o qualcuno di genere sconosciuto, o anche, quando ci riferiamo a categorie che comprendono generi diversi, è quasi obbligatorio adoperare il cosiddetto “maschile sovraesteso”.

Per queste ragioni, una lingua fortemente androcentrica come quella italiana non fa che accentuare stereotipi di genere che mettono in secondo piano donne, persone non binarie, individui transgender o persone intersex.

È, dunque, questo il motivo per cui l’italiano non  appare una lingua sempre adeguata a esprimere esigenze e sensibilità in cambiamento continuo. È auspicabile, allora, che il modo di comunicare si evolva, adattandosi alla necessità di maggiore inclusione.

Nonostante tutto questo, però, ancora oggi accettiamo (e utilizziamo) con fatica alcuni cambiamenti linguistici a cui non siamo abituati: si pensi al femminile di “avvocato” che diventa “avvocata” che non viene sempre accolta con convinzione, nonostante sia diventata di uso comune.

Un esempio del pregiudizio legato ancora legato al diverso significato attribuito alla forma maschile e femminile del medesimo sostantivo, è quello legato alla parola “maestro”, con la quale si intende solitamente il direttore di orchestra e “maestra” come l’insegnante della scuola d’infanzia o di quella primaria. 

Tra l’altro, orientamenti sessuali differenti dall’eterosessualità sono sempre esistiti, ma oggi spesso si pensa di trovarsi dinnanzi una moda dal momento secondo la quale “ci sono molte più persone omosessuali, bisessuali, ecc.”. Ma chiaramente questo non è vero: semplicemente (e fortunatamente) è aumentata la sensibilità sociale verso questi temi, inducendo quindi ad una maggiore visibilità su queste tematiche e quindi maggiore informazione e, di riflesso, un numero più consistente di persone avrà la possibilità di fare coming out e di vivere la propria identità in piena autenticità.

Questo vale chiaramente anche per temi socialmente meno noti come le diversità di genere e le identità non binarie. Come per i femminili professionali, anche la possibilità di includere le realtà delle persone di genere non conforme e non binarie – da tempo ormai – si sta facendo largo attraverso l’uso dell’asterisco o della x al posto del genere dei sostantivi (per esempio: “Ciao a tutt*”), oppure all’utilizzo dello schwa (ə). Chiaramente l’uso della schwa non può essere considerata una “scusa” della grammatica sufficiente per chiudere il dibattito e accontentarci ai fini di una maggiore inclusione di tutte le persone appartenenti a qualsiasi categoria. 

Il team di GayLawyers, attraverso eventi, seminari e corsi di formazioni interne alle Aziende, da tempo si batte per invitare ad usare un linguaggio più inclusivo e meno stereotipato, segnalando innanzitutto il  potenziale impatto di trasformazione sociale e di vantaggio per lavoratori e datori di lavoro a cui questo potrebbe dare vita, dal momento che consente a chiunque di sentirsi profondamente accolto e rispettato anche sul posto di lavoro. Infine, scrivere e parlare in maniera inclusiva, tiene conto delle emozioni e delle scelte di chi ascolta e di chi legge, divenendo così un importante esercizio di empatia.

Scegliere le parole che usiamo cela spesso fenomeni e pregiudizi della società e della cultura in cui viviamo. Impegnarci a pensare al di fuori dalla nostra comfort zone, ripensando alcuni automatismi comunicativi e stimolando un approccio aperto verso le differenze sono la chiave per essere ciò che sentiamo di essere.

GayLawyers promuove eventi di sensibilizzazione e giornate di formazione su queste tematiche. Per maggiori info: info@gaylawyers.com .

Cynthia Cortés Castillo
Digital Marketing Executive

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